lunedì 31 maggio 2010

Happy Birthday

Appena sveglio, apro gli occhi e mi auguro che il buon Dio mi renda finalmente cieco. È verde pisello e ha i pomelli delle ante gialli, è diviso in tre parti e ha pure un cassetto che separa l'anta grande da quella piccola. Di fianco, immobile, mamma yeti ha atteso il mio risveglio per essere la prima a dirmi:

"Buon compleanno."

Io richiudo gli occhi, ma quando li riapro il mobiletto verde è ancora di fianco a mamma yeti. Mi viene da star male, ma tengo duro.

"Ti piace?"
"Preferirei usare una cassa da morto piuttosto che quello."

Mamma yeti fa un sorriso grande grande e poi con le sue braccia enormi mi solleva di peso dal letto, mentre tre le lacrime ripete: "Ah, il mio Paul è diventato grande. Auguri, stellina!"

Ormai, dopo che ho preso il controllo della lavatrice, mia madre non mi regala più vestiti: teme che facciano la fine indecente di tutti gli altri. Di sicuro, il mobiletto non lo posso mettere in lavatrice e fargli perdere il colore o infeltrirlo, quindi ha optato per il bel pezzo di arredamento. Prevedo una giornata in salita.

Mi sveglio del tutto e dopo una rapida toelettatura scendo a far colazione. Nel croissant è infilzata una candelina accesa. Vengo colto di sopresa con la tazza di caffellatte nella mano sinistra e il croissant nella destra.

"Dopo fai un salto a prendere Attila?"

No, Attila non lo voglio vedere oggi. Almeno oggi! Mi sia risparmiata la sua presenza a tavola. Non so se sarò in grado di sopportare il barbaro che si nutre con le mani per poi pulirsele nella magliatta... la mia.

"Tuo fratello ti aspetta tra una mezzoretta."

E sia: andiamo a prendere l'incivile e portiamolo al cospetto di mamma yeti. Durante il tragitto da casa sua a casa dei miei è calmo: si sta trattenendo per dare il meglio di sé una volta arrivato. Infatti, appena sceso dall'auto va a cercare la sua vittima preferita, il gatto. Faccio spallucce e mormoro una rapida preghiera, affinché la mia mano sia trattenuta dal far fuori il barbaro mignon.

Passo la mattina, il pranzo (ho ancora il voltastomaco) e il pomeriggio con il nipotino. Ne esco a pezzi. Ho solo voglia di imbottirmi di farmaci e andare a letto aspettando che arrivi domani. Ma non è così semplice: per la serata sono invitato a una festicciola in mio onore organizzata dall'orda infernale degli unni al gran completo. Faccio una rapida doccia e mi preparo per la sera. Li anticipo di qualche minuto aspettandoli fuori casa. Dopo poco, il rombo di un motore e un clacson spiegato ai quattro venti mi annunciano l'arrivo dell'orda. Si materializzano sgommando e parcheggiando l'auto nel mio cortile.

"Dai Paul! Prendi la macchina che stasera si beve!" Hanno anche una tromba da stadio, me la puntano in faccia e suonano. Parte anche un coro da stadio "Tanti auguri a te!" ecc ecc.
"Dai Paul, la macchina! Dai che andiamo." Ancora la tromba, ancora i cori.

Corro a prendere l'auto, carico gli unni e mi avvio verso il solito bar delle grandi occasioni. L'unno che ho di fianco mi suona il clacson in continuazione sulle note della tremenda canzoncina di compleanno. Gli altri fanno eco con la tromba.

Arriviamo. Il resto dell'armata è già lì, tutti esplodono in un gran boato. Visto che sono un po' giù di morale mi portano subito davanti alla torta: cioccolato e crema, deliziosa. Mangio, scherzo e ridacchio. Ancora la tromba, ancora i cori. Alla fine della serata, chi prima chi dopo, tutti si dileguano augurandosi cento di questi giorni e tutto il repertorio di scemenze che si dice in queste occasioni. Stanco e assordato cerco di portare la mia carcassa a casa. Accendo anche il cellulare per vedere se ho messaggi. Uno. "Ho chiamato alle ore..." La rompiballe! Speravo in un altro messaggino, ma ok.

Provo a entrare: chiuso. Frugo in tasca. Niente chiavi. Ho sempre desiderato dormire in macchina... buona notte.

venerdì 28 maggio 2010

Violenza inaudita

Ti ammazzo con le mie sole mani, o qualcosa di simile. È questo il significato di Krav Maga, o almeno lo è per l'istruttore peloso che ho conosciuto l'altra sera.

Reduce dalla mia avventura in canoa lungo il fiume, mi sono fatto convincere a provare una lezione di difesa personale. Ci partecipano alcuni colleghi (non i due primati Macaco1 e 2, purtroppo) e mi hanno detto che è un gran divertimento. La cosa bella della faccenda è che non è una disciplina sportiva, quindi non ci sono categorie, quindi se ti va bene puoi trovarti avvinghiato corpo a corpo con la bella mora che frequenta il corso. Non chiedo di meglio! L'istruttore peloso presenta il programma.

"Signori," mani dietro la schiena in perfetto stile sergente dei marines. "Krav Maga significa morte." E mi guarda. "Imparerete a distinguere gli amici dai nemici," e mi indica. "Questo non è un corso per signorine e per rammolliti," sempre con lo sguardo verso di me. "Qui imparerete che anche il più duro degli essere umani può essere piegato. Imparerete un nuovo concetto di velocità e precisione e soprattutto di dolore." I suoi occhi infuocati mi penetrano nella carne e arrivano fino alle ossa.

"Tu!" Il suo indice, più simile alla canna di un fucile che a un dito umano, è puntato nella mia direzione. Deglutisco, anche se ho la salivazione azzerata. Come se fossi pilotato telepaticamente, faccio qualche passo verso l'istruttore peloso.

"Questo è un essere umano." Mi guarda. "O almeno tenta di assomigliare a un essere umano. I punti chiave di questo inutile ammasso di carne... di'," e con un tono più mellifluo mi chiede "non sarai per caso un ingegnere?" Io faccio no con la testa. I miei colleghi fanno sì. In questo preciso istante mi sento solidale con le vittime di Robespierre durante il Terrore. "Comunque," prosegue, "i punti chiave dell'essere umano sono occhi, gola, testicoli e ginocchia. Gli ingegneri hanno qualche variazione sul tema, ma per il momento fatevi bastare questo. Ora esamineremo la struttura ossea e muscolare e i punti di rottura delle articolazioni."

Nella mezzora seguente, trattandomi come un manichino, mostra ai partecipanti tutte le mie giunture. Pratica su di me tutte le prese più meschine e luride che riesce a concepire portando i miei tendini e le mie ossa verso il punto fatale. Purtroppo per il povero istruttore peloso, le normali regole che valgono per l'essere umano, non valgono per me.

"Se faccio così fa male?" E mi torce un braccio dietro la schiena.
"No."
"Così?" E ho un piede girato di 345 gradi.
"No."
"Così?"
"No."
"Così?"
"No." Quando mi metto a ridere, l'istruttore peloso desiste.

Lo vedo un po' giù di morale, allora per non farlo sentire del tutto inutile mi massaggio un gomito fingendo una smorfia di dolore.

"Visto? Funziona!" Dichiara raggiante ai presenti. "E ora, facciamo un po' di pratica a coppie." Parte una sessione di kamasutra marziale di gruppo. Purtroppo la bella mora se l'è presa l'istruttore peloso, a me è capitato un collega.

Ci spiega che bisogna colpire per primi i punti più vulnerabili del corpo pur prestando attenzione all'ambiente circostante per eseguire una rapida fuga dalla minaccia. Ci insegna che per un uomo, il colpo più letale è la ginocchiata (seguita da un calcio, per gradire) proprio sotto lo scroto. Infatti...

La bella mora, colta da improvvisa iniziativa parte all'attacco dell'istruttore peloso. Esecuzione perfetta: presa, ginocchiata, calcio e l'istruttore va giù esalando tutta l'aria che ha in corpo. Resta in posizione fetale un quarto d'ora, piagnucolando, poi, con coraggio: "...ci vediamo... m... martedì... prossimo..." e sviene.

Non lo so... questa krav maga non mi convince del tutto.

giovedì 27 maggio 2010

Come gli indiani

Mens sana in corpore sano solevano dire i nostri antenati mentre si ingozzavano stravaccati sul triclinio. E io, che sono grande estimatore dell'antichità, cerco nel mio piccolo di rifarmi a quei saggi precursori dell'epoca moderna: mangio come una bestia. Tra un pasto e l'altro, però, cerco anche di mantenere una certa forma fisica per adempiere del tutto al detto romano. (Dato che sono ingegnere, la "mens sana" ce l'ho da contratto, quindi inutile allenarla).

Come sapete, ho già dato inizio alla mia avventura da podista. I risultati sono altalenanti, lo ammetto, anche perché non sempre ho tempo, ma soprattutto voglia di compiere quello sforzo immane qual è l'allacciarsi le stringhe delle scarpe. Dovrei scoprire se esistono scarpe da corsa con gli strappi: tutto sarebbe molto più semplice. Da lì in poi è tutta discesa: basta mettere un piede davanti all'altro con velocità sempre maggiore, finché la milza non esplode. Devo ammettere che la corsa ha dei lati positivi. Adesso non me ne viene in mente nemmeno uno, ma deve averli sicuramente, perché Macaco1 corre un sacco e pare contento. Purtroppo la corsa è anche un'attività solitaria. Non puoi fare conversazione se tutto l'ossigeno che hai in corpo viene consumato dalle gambe, mentre il dolore straziante dei tuoi piedi ti annebbia la mente. E poi le ragazza più belle, con le quali vorrei fare conversazione (e molto altro) corrono molto più veloce di me. L'altro ieri, per dirne una, sono riuscito a raggiungerne una con il cappellino e una nera coda di capelli. Quando ho esalato la mia unica (e ho temuto ultima) parola, "Ciao", lei ha chiamato l'ambulanza chiedendo di mandare quella con il kit di rianimazione dei morti, lasciandomi lì come un ebete. No, decisamente, non puoi parlare mentre corri.

Così mi sono guardato un po' attorno con il solido intento di trovarmi qualcosa che si possa fare in compagnia, in squadra. Ah, la complicità, l'affiatamento della squadra, il far parte di una realtà, condividere fatica (spero poca), onori, glorie, sconfitte, cene, amore. Ecco, devo trovarmi degli sport con squadre miste. Dopo qualche notte insonne passata sulla grande rete, sono riuscito ad individuare lo sport perfetto per me: la canoa. Ieri sera il primo appuntamento del corso.

"Questa è la canoa. Questa è la pagaia. Questo è il fiume. Buona fortuna."

Le spiegazioni tecniche iniziano e finiscono qui: sembra facile. Primo passo essenziale per poter praticare canoa è salirci sopra. Tutti i partecipanti al corso fanno vari tentativi per infilarsi nella canoa loro assegnata dal malvagio istruttore. Chi con prudenza, chi con baldanza e sicurezza, chi con paura e chi, come me, con cura, analizzando la situazione. Pondero il precario equilibrio del mezzo, aggiungo all'equazione che avrò almeno una mano occupata dalla pagaia, noto che ho i normali vestiti che uso in ufficio. Mi denudo parzialmente, mi infilo nell'acqua torbida del fiume e mi avvicino alla canoa. Quella che mi è stata assegnata è rossa. Sempre con la pagaia in mano cerco di entrare nel basculante mezzo di trasporto. Faccio vari tentativi ma il risultato è sempre quello e alla fine mi ritrovo completamente fradicio e lurido. Spero che quella grande fabbrica che si vede in lontananza non scarichi troppa roba in acqua. Alla fine, sono uno dei pochissimi ad essere riuscito a domare la barchetta. Uno si è infilato con la testa, l'altro è coricato di schiena e io sono a cavalcioni ma girato al contrario.

L'istruttore, braccia conserte e sguardo assassino, annuisce gravemente dalla riva. "Bene, addio e buon divertimento." Mentre taglia le corde che fissano le imbarcazioni alla riva. "Ci vediamo venerdì per la prossima lezione." E nel frattempo diventa un puntino lontano.

Speriamo non ci siano troppe rapide.

mercoledì 26 maggio 2010

La sorte del vinto

Siamo al bar, io, un paio di unni e C. C è una bella ragazza che frequenta l'armata unna, soprattutto nel weekend. Pare che si diverta un mondo ad agghindarsi, a farsi bella e poi a mostrarsi ai barbari mentre i brillantini sulla maglietta nuova risplendono. In questi anni, poi, ha provato almeno una cinquantina di acconciature differenti e di varianti di trucco. Se stiamo ad ascoltare l'aritmetica combinatoria, questa qui ha la possibilità di essere un numero infinito di persone diverse. Sabato sera, per l'occasione, indossa una magliettina bianca, un gilet rosa di quelli corti corti con le maniche lunghe, una gonna al ginocchio e un bal paio di scarpe con i tacchi da 10.

All'improvviso, mentre il sopore della notte e il torpore dell'alcol avanzano inesorabili, uno degli unni salta su e fa: "Biliardo." Non è una domanda o una proposta è il suo preciso intento. L'altro unno, mentre stringe il boccale di birra tiepida, alza lo sguardo vuoto e mugugna qualcosa.

"Biliardo?"
"Biliardo."
"Biliardo!"
"Paul, sei dei nostri." Fanno due squadre. Un unno è con me, l'altro è con C.

Spacco. Io non sono molto bravo a giocare, ma finché è per divertirsi ci sto. Tiro e cerco almeno di colpire le palline giuste. Faccio anche qualche punto. A turno ci chiniamo sul tavolo verde e, stecca alla mano, diamo un bel colpo alla boccia bianca. Mentre uno gioca, gli altri si fanno passare il gessetto con l'aria da giocatore consumato. La partita va meglio del solito. Al momento abbiamo sparato la bianca fuori dal tavolo solo due volte e abbiamo disegnato appena tre righe sul tappeto.

C si diverte un mondo a tirare, anche perché sa che tutte le volte che si corica sul tavolo ha addosso sei occhi. Cerca di provocare i nostri istinti più bassi con pose sensuali, ma per noi basta molto meno. Sbaviamo copiosamente. A metà partita, il mio barbaro propone: "Scommessa."

"Scommessa." Gli fa eco l'altro ebete.
C se la ride un po' e fa la faccia furba. "Scommessa." E guardano tutti quanti me. Titubante mi mordo il labbro.

"Se perdiamo, Paul si mette su le scarpe di C e va a farsi quattro passi fuori."
"Ma perché io?"
"Perché sei il più sacrificabile."
"E se vinciamo? C si mette le mie mutande?"
"No, direi di no, zitto e tira."

Tiro. Buca. L'ultima della serata. Da qui in poi gioco contro tre persone: la squadra avversaria e il mio unno che già pregusta la mia umiliazione. Cerco di dare del mio meglio ma niente da fare. C mette in buca la 8, la maledetta pallina nera che segna la fine della partita e mi guarda ammiccando. Con un'eleganza tutta femminile si sfila le scarpette e me le porge.

Me le rigiro in mano, le guardo, le studio, cerco di capire come una persona sana di mente possa solo pensare di acquistare queste cose qui che più che scarpe mi sembrano strumenti di tortura. Rosa per di più. Mi siedo, mi slaccio una delle mie e comincio il complicato rituale per indossare la sinistra. Spingo, tiro, accomodo il piede, spingo ancora mi alzo, picchio il piede per terra, spingo, mollo, non desisto, urlo di dolore. Una infilata. Ripeto il rito con la seconda. I tre mi guardano con compassione e con le lacrime agli occhi dalle grandi risa. Mi fanno segno di alzarmi dalla sedia. Punto nell'orgoglio, mi alzo. Porto un piede davanti all'altro, scivolo, la caviglia cede, sento un suono raccapricciante di tendini che si rompono e volo per terra baciando il pavimento. Cerco di far forza sulle braccia, mi rialzo e ritento. Niente, non va: cado ancora. Riprovo con rabbia, ma il risultato è sempre questo. Rimango lì per terra a ponderare le ingiustizie della vita e ad assaporare la vista delle gambe nude di C da uno splendido punto di vista.

martedì 25 maggio 2010

La sicurezza del lavoro

"Lo so che non ve ne frega niente, che siete qui perché vi è stato imposto. D'altronde non è un problema mio, io sono pagato per rendere la prossima ora e mezza uno dei momenti più noiosi della vostra intera esistenza. E, credetemi, ci riuscirò. Chi sa cos'è la sicurezza sul lavoro?"

Mi perde in questo preciso istante. Difficile che riuscirà a recuperare la mia attenzione senza tirare fuori un estintore per spegnere Macaco1 in fiamme che corre per la stanza. Molto difficile! Come sempre, in situazioni come questa, applico il mio superiore controllo mentale. Spengo lo sguardo, privo gli occhi di qualunque barlume di umana intelligenza, fisso un punto alle spalle del relatore. Accavallo le gambe e faccio penzolare le braccia. Contraggo a ritmo i muscoli del collo per produrre un perpetuo annuire. Ho fatto tutta l'università così, figuriamoci se un'oretta può spaventarmi. La funzione di stand by del mio cervello entra in funzione pochi secondi dopo l'inizio del corso, davanti ad una slide che mostra una sorta di organigramma.

Quando esco dalla trance, un'ora dopo, la slide non è cambiata e il tizio in maglietta azzurra sta ancora indicando il secondo rettangolo. Nella stanza l'aria è pesante e la luce della sera mi dice che dovrei essere fuori a correre libero e non qui dentro ad ascoltare i vaneggiamenti di un pazzo. Mi guardo attorno per vedere in che condizioni sono i miei colleghi. Macaco1, con una biro nel naso, sta guardando fuori dalla finestra dando più o meno la schiena al relatore. La cosa non mi stupisce, il tempo di concentrazione di Macaco1 è sì e no due minuti. Ogni tanto, per interrompere la monotonia del tardo pomeriggio, Macaco1 lecca il vetro. Macaco2 è ancora immobile con lo sguardo fisso sull'organigramma. Il suo respiro è flebile, ridotto quasi a un soffio con rantolo finale. Temo che non sopravviverà all'incontro. Poco male, dato che non si è ancora riprodotto. Una collega, giovane e bella, sta piagnucolando in un angolo. Vuole andare a casa, vuole che questa sofferenza le sia risparmiata, si lamenta che non è stata assunta per ascoltare queste follie, che vuole solo lavorare e guadagnarsi qualcosina. Un altro collega, un veterano del mondo del lavoro, ha un coltello e si sta incidendo una mano cantilenando a denti stretti "un coniglio nel cappello... un coniglio nel cappello..." Probabilmente il dolore fisico è la sua via di fuga dal mondo reale. Oppure vuole aggrapparsi alla vita e l'unica sua prova tangibile è il proprio dolore. Minuscole gocce di sangue cadono al suolo facendo da controcanto alle eresie pronunciate con tracotanza dal nostro carnefice. Il respiro pesante di uno dei soci (uno di quei disgraziati che mi paga lo stipendio) è la prova evidente che sta dormendo lì in mezzo a tutti. Un lucente filo di bava gli cola dall'angolo della bocca fin sul colletto della camicia. Il collega nuovo ha preferito iniettarsi una rarissima variante del virus influenzale piuttosto che presentarsi oggi. Per lui provo un misto di rispetto e di pena. Rispetto perché ci vuole coraggio a dire di no. E pena perché per lui il corso sarà personalizzato. Dietro di me, poi una ragazza alza la mano. Gli occhi del nostro mentore si illuminano: "Oh, una domanda! Prego." "Sì, beh, io dovrei andare a mescolare il sugo, mi spiace ma mi tocca andare a casa." E detto questo si catapulta verso la porta. Anche per lei corso personalizzato tra qualche giorno.

Rientro nella fase REM controllato e mi risveglio con un foglio e una biro in mano: un test di comprensione di fine corso. Copio spudoratamente le risposte di Macaco2 sopravvissuto. Chiedo al tizio se posso andare in bagno con il test prima di riconsegnarlo, ma mi nega anche questa soddisfazione. Allora firmo, piego il test a forma di barchetta e glielo restituisco. Chissà che sorpresa che avrà scoprendo che uno dei presenti in aula fa di nome Frank Sinatra!

lunedì 24 maggio 2010

Difesa personale

Le continue incursioni in casa mia e la presenza massiccia di ominidi semisenzienti e fastidiosissimi mi hanno fatto ponderare più volte l'acquisto di un'arma per la mia difesa personale. Scopro, con mia somma gioia, che esistono armi a libera vendita (ad aria compressa) e che proprio sabato fanno una mostra-mercato a tema. Quale occasione migliore per cominciare ad organizzarsi meglio contro Macaco 1 e 2, la truppa degli unni e mamma yeti?

Mentendo a chiunque, di buon'ora mi avvio verso la fiera. Le menzogne sono di piccolo calibro tipo vado a fare la spesa, vado a spegnere la lavatrice, vado a comperare le sigarette per i cani, io non fumo e lo sanno tutti, vado a farmi un tatuaggio con scritto 'vi odio tutti', vado al diavolo, vado a un congresso pallosissimo in cui si parla di informatica secca, vado a fare l'agopuntura, vado a chiedere le elemosina in stazione, vado a una manifestazione di GreenPeace, vado a trovare la tua ragazza che ti odia e vuole parlarmene mentre facciamo le capriole, vado a vedere l'Inter che gioca, vado, adesso vado, non seguitemi, meglio per voi.

Vado. Il viaggio è tranquillo, mi perdo solo tre volte. Una delle mie doti è il senso dell'orientamento. So perdermi ovunque: non riesco a seguire le indicazioni che mi vengono fornite. Così per dispetto, se la gente mi dice di svoltare a destra io faccio il contrario. Sono un po' anarchico, ma alla fine arrivo sempre a destinazione e, cosa ancora più sconvolgente, riesco a tornare a casa (pensate all'Africa). In questa zona ci sono già stato una volta per una misera fiera dell'elettronica un paio di anni fa. Potrei riconoscere il posto lontano un chilometro. Infatti, con la sicurezza di una guida alpina entro in un parcheggio enorme che, secondo i miei calcoli, dovrebbe essere esattamente a qualche metro dalla fiera. Il fatto che il parcheggio sia vuoto dovrebbe insospettirmi, ma non mi curo di queste ansie, pago il parcheggiatore pachistano (lui mi chiede 300 rupie io gli lancio 1 euro) e mi incammino verso la fiera.

Dopo un paio di ore di tentativi inutili e dopo aver chiesto indicazioni a chiunque, arrivo. Noto che il parcheggio della fiera è similissimo a quello che ho scelto io, l'unica differenza sta proprio nella presenza della fiera nelle vicinanze. Mi metto in coda e aspetto il mio turno per prendere il biglietto. Quando sono vicino alla cassa mi metto in ginocchio e tento di farmi passare per un bambino, ma la cassiera non ci casca, avrei dovuto radermi meglio. Varco la soglia del capannone e comincio a respirare l'atmosfera del magico mondo delle armi.

C'è tutto e il contrario di tutto. Una grande sezione è dedicata a robe storiche e da collezionismo. Ci sono addirittura delle scarpe usate da un soldato americano (immagino morto). Se il prezzo fosse abbordabile... ogni volta che passo di fianco a un banchetto vengo supplicato dal mercante. Compra la spilla, compra la medaglia, compra i guanti, compra il fucile, compra la mitraglia, compra la divisa dei carabinieri, compra il passamontagna, compra la jeep, compra il carrarmato, compra il soldatino di piombio colorato a mano da mio figlio che fa gli anni proprio oggi e che ti vuole tanto bene, compra l'elmetto prussiano, compra! Mi faccio scudo con le mani e dico no con la testa. Solo per accontentare i più petulanti compro qualcosina qui e là. Robetta.

Giro tutta la fiera in cerca delle armi ad aria compressa, ma trovo soltanto quelle per il soft air, pratica squallida da dementi che utilizzano poco armi giocattolo. La giro una volta, due, tre, quattro. Niente da fare, o il mauser tedesco o la pistolina di plastica, niente via di mezzo. Indispettito infilo la porta e cerco di tornare verso l'auto parcheggiata chissà dove. La trovo dopo qualche ora di ricerca, mi siedo e metto in moto. Mi guardo nello specchietto retrovisore e penso che l'elmetto prussiano mi dona un casino!

venerdì 21 maggio 2010

Sensi

Mi ritrovo seduto a pensare. L'aria fresca della sera entra dalle finestre e porta con sè odore di umidità e di terra e della primavera che ha preso il sopravvento sul gelo dell'inverno. Nella tranquillità di casa posso concedermi il lusso di chiudere gli occhi e vivermi con tutti gli altri sensi.

Posso frugare con la mente nei ricordi e pensare all'inizio di questa avventura solitaria, di questo viaggio. Sì, perché in fondo tutta la vita è un viaggio. Sei sempre in movimento, il cambiamento è paradossalmente l'unica cosa costante durante tutto l'arco dei tuoi anni. Ti ritrovi a piangere per un ginocchio sbucciato e poi ti scopri eccitato il minuto prima di un esame importante all'università, ad ansimare di piacere con una ragazza, a soffrire e maledire nel momento dell'abbandono. Ripercorri momenti, immagini, sapori, odori, ferite, musica.

Il primo concerto dal vivo a cui hai assistito, l'emozione del gruppo che invade il palco, ululando e tu impietrito e con gli occhi sgranati, nella polvere e nel caldo del tendone ma con un sorriso nel cuore. La musica che ti penetra nella pelle, nella carne fin dentro nelle ossa cercando l'anima. La musica che ti fa sanguinare, una frase e una melodia che si sposano e scatenano un turbinio di emozioni.

La stessa frase che ti trovi a canticchiare, anni dopo, sotto la doccia mentre ti passi una spugna ruvida sulla schiena e l'acqua di crivella di minuscoli colpi, ma senza ferire. Lenzuola di raso che grattano durante le notti d'estate, il caldo, il sudore che cola in mezzo alle scapole, l'aria del ventilatore che ti soffia sui piedi nudi mentre cerchi ristoro sul freddo marmo del pavimento. O il tepore delle coperte nelle mattine di febbraio, quando la sveglia urla e tu ti fingi sordo per non alzarti mai. Ti augureresti che quel tepore diventi eterno. L'abbraccio di una donna, di una madre, caldo, avvolgente, schietto. Le labbra che sfiorano la tua gota folta di barba incolta e della fatica della settimana.

E gli anni passano, passano i mesi e i giorni e il mondo si colora. Si fa grigio di nebbia fitta che ti copre gli occhi e ti bagna le ossa. Poi la nebbia ghiaccia e tutto diventa bianco di brina. Ragni di vetro penzolano dalla ringhiera del cortile finché non arriva la prima neve. Amo il bianco sulle strade e il colore del caffè caldo quando non puoi andare al lavoro. E il sole! Il sole bianco delle mattine di inverno, anemico, che si colora di sera per la vergogna. Poi, come per scommessa torna a farsi tondo e rosso e la primavera irrompe, verde e rosa e bianca con le strade fitte di magnoglie stellate, già destinate a lasciare il passo alle foglie scure dell'estate con i suoi colori decisi. Il giallo della terra, il verde dei campi e il rosso dei frutti. Ultimi ricordi prima dell'autunno rosso di caduci castagni.

Con i suoi odori, quando la morte delle foglie è la nascita di una promessa, quando le pioggie tolgono la polvere dell'estate e l'aria torna a profumare di antico. L'aroma del legno tagliato e della terra ancora una volta nuda e scura, rivoltata, violentata dagli aratri. Il profumo dei vestiti pesanti che riemergono dall'armadio e ti avvolgono teneramente. La tua vecchia felpa che usi in casa, quella con gli orli ormai logori. Quella con le maniche larghe che ti scendono sempre quando cucini e tu continui a tirarle sopra i gomiti mentre rimescoli la zuppa.

Rigiri il farro, il prezzemolo e i fagioli. Li amalgami con cura per ore mentre i crostini si scaldano nel fornetto. Poi ti versi la zuppa nel piatto e la mangi con ingordigia, ti scotti la lingua e maledici te stesso. E ti complimenti perché la tua zuppa è proprio buona e sa di casa. Una zuppa che verrà...

Per ora resto qui, seduto, con le braccia a penzoloni a pensare e ad annusare l'aria.

giovedì 20 maggio 2010

Grande distribuzione

Per un ingegnere l'ottimizzazione è questione di vita o di morte. Soprattutto adesso che sono andato a vivere per conto mio. Devo riprogettare la mia vita quotidiana partendo dalle attività dalle quali è difficile esimersi. La spesa per esempio. Sono già stati fatti diversi tentativi.

1. La spesa titanica. Il problema è che alcuni alimenti, soprattutto i più delicati e i meno surgelati tendono a deperire in poco tempo. Ho provato a mangiare l'insalata di una settimana e mezza, ma sono stato un po' male.

2. La spesa continua. Ogni giorno si acquista lo stretto necessario per la sera, la colazione del giorno dopo e il pranzo in ufficio. Data la frequenza, bisogna trovare punti vendita vicini a casa o almeno sulla strada per minimizzare lo spreco di carburante. Altrimenti due biscotti mi costano un patrimonio.

3. La spesa serale. Affascinato da questa opportunità, ho provato a recarmi al supermercato alle nove e mezza di sera.

Parcheggio l'auto in diagonale cercando di occupare sei spazi. È una manovra che ti dà un senso di libertà incredibile, è una ribellione contro il sistema, è un gridare al mondo la tua rivendicazione di autista, di singolo essere umano, di te. Inserisco l'euro nel carrello mi infilo nel supermercato. Una corrente gelida e condizionata tenta di spingermi fuori, come uno starnuto con il pulviscolo nel naso. Resisto, mi impunto, spingo e faccio forza. Alla fine le porte automatiche si chiudono e l'anima del supermercato desiste.

Dentro c'è silenzio. Il vociare della gente, il rumore dei rulli delle casse, il bip costante dei lettori di codici a barre, gli schiamazzi dei bambini, il tintinnare delle monete degli ottuagenari, non c'è nulla. Cerco di guadagnare l'entrata del vero supermercato, quella che delimita il recinto dei consumatori ma vengo avvicinato da una donna. Ha un depliant in mano, è smunta e gli occhi sono arrossatti, circondati da orbite scure. Il trucco è un po' sciupato dopo la giornata, la voce è flebile.

"Lo vuoi il divano che fa i massaggi?" Mentre mi allunga il volantino variopinto. "Lo vuoi o no il divano? Fa i massaggi eh." I suoi occhi hanno un che di crudele. Cerca di umettarsi le labbra. "Massaggi..."

Mi allontano in fretta facendomi scudo con la mano e con il carrello.

Entro e tiro un sospiro di sollievo. Faccio mente locale e mi dirigo verso il reparto frutta e verdura. Gli scaffali sono mezzi vuoti. Afferro alcune mele, delle carote, pomodori e insalata. Tento anche gli asparagi, ma quando giro attorno allo scaffale cozzo contro una persona accucciata con in mano una pannocchia. Le sta sussurrando qualcosa, parole tenere, di una tenerezza morbosa. Si gira di scatto e digrigna i denti nascondendo la pannocchia. "Non l'avrai..." sibila feroce. "Non l'avrai mai! MAI!"

Dimentico gli asparagi e faccio retromarcia fino al reparto carni macinate. Uno dei neon del frigo ronza e, nel momento in cui afferro una confezione di carne, con un suono simile a un tonfo, si spegne. La carne, nella penombra, ha un che di grottesco, di sconosciuto.

Arretro e recupero in fretta dei biscotti, l'acqua, il tonno e un po' di pasta e corro verso la cassa. Butto tutta la spesa sul rullo mentre una cassiera scheletrica fa passare con lenti gesti ogni singolo oggetto sul lettore. Bip... Bip... Bip... Bip... Pago il più velocemente possibile e mi catapulto verso l'uscita. La porta automatica scorre con un paio di sussulti. Sono fuori. Vuoto il carrello in macchina e lo abbandono nel parcheggio, salgo, metto in moto e ingrano la prima.

Posso anche sbagliarmi, ma mentre mi allontano a tutta velocità mi sembra di vedere una bimba dai riccioli d'oro e con un palloncino nero in mano che mi saluta fissandomi.

mercoledì 19 maggio 2010

Trilogia horror

Il cucchiaio

Intellettualmente mi sento vicinissimo ad Alenxander Fleming. Dovete sapere che il nostro, ma sicuramente lo conoscete, scoprì che la crescita di batteri era inibita nelle vicinanze di un particolare strato di muffa cresciuto in laboratorio. Si interessò al caso e se ne venne fuori con una scoperta che chiamò penicillina. I colleghi, naturalmente, durante il processo di studio delle muffe, lo deridevano e lo davano ormai per pazzo. Ma lui niente, non volle mai demordere e alla fine non solo trionfò sui colleghi ma anche su malattie come la sifilide. Sono alcuni giorni ormai che sto osservando un procedimento del tutto simile. Qualche tempo fa ho lavato il cucchiaio di legno dopo averlo utilizzato in cucina. L'ho lasciato un po' a scolare e me ne sono dimenticato. Devo avero adoperato altre volte e lasciato ovviamente in condizioni di umidità, fatto sta che oggi, tornando a casa, ho notato che un bello strato di muffa si è messo a crescere proprio sul cucchiaio. L'aspetto è ripugnante e l'odore pungente. Memore dei dissapori di Fleming con i colleghi e sapendo che la sifilide è già stata debellata, ho lavato il cucchiaio e l'ho purificato con il fuoco del fornetto. Adesso ha una aspetto decisamente più scuro, ma è tornato sicuramente sterile.

Le zucchine

Ogni uomo ha i propri limiti, il mio è verde e affusolato. Sto parlando ovviamente di zucchine, mi piacciono motlissimo ma non sono capace di cucinarle a dovere. Ho tentato in vari modi, le ho perfino infilate nell'insalata di riso così, crude e tonde come madre natura le ha fatte. Ma niente: il risultato è sempre mediocre. Proprio per questo desiderio di mangiarle e per la mia incapacità nel cucinarle, le compro tutte le volte che vado a fare la spesa, ma poi le lascio in frigo nel sacchetto di plastica. L'ortaggio si vendica entro la settimana. Se aprendo il frigo si viene assaliti da un odore particolarmente forte, la probabilità che le zucchine siano andate all'altro mondo è davvero alta. Che fare in questi momenti: semplicissimo, seguire i pochi passi della mia guida "Sun Tzu e l'arte della guerra contro gli ortaggi". Prendere un coltello, un tagliere di legno e le zucchine. Tagliare (a occhio) la parte della zucchina che sembra marcia. Assaggiare la parte sana. Se il gusto è terribile, tagliare un altro po' e ripetere con l'assaggio. È infallibile e stimola i sensi di colpa per aver lasciato l'ortaggio tutto solo per troppo tempo.

La trippa

La ricetta standard della trippa sta scritta sul lato della lattina dove è contenuta. Versare il contenuto della scatola e bla bla bla bla. Questi qui che scrivono le ricette, decisamente, non capisco nulla di cucina. Ve lo spiego io come si fa a far cuocere la trippa. Aprire la lattina di trippa e metterla sul fornello. Accendere un fuoco basso sotto la lattina. Quando il gel si trasmuta in liquido aggiungere un cucchiaio di olio e del prezzemolo. Afferrare la lattina incadescente e vuotate il contenuto nel piatto. Accompagnare il torbido mischione di interiora e facioli con dei crostini di pane tostato. Così è come l'ho fatta l'altra sera al ritorno dall'ormai quotidiano rito della corsa. La lattina è per due persone, ma dato l'appetito, me la sono mangiata tutta con molto godimento. Nota per me: la prossima volta sarebbe il caso di utilizzare la cappa per aspirare e filtrare i soavi odori prodotti dalla cottura, pena la casa che sa di trippa per una settimana. Non che mi dispiaccia ma insomma, se qualcuno viene a trovarmi...

Buon appetito.

martedì 18 maggio 2010

Appello disperato

Pop.

Far parte di un élite significa appartenere ad un gruppo ristretto di persone separate dal resto della popolazione. Generalmente l'élite ha compiti e capacità speciali. Pensate, per esempio, ad un contesto militare. C'è la carne da cannone, quelli che urlano mentre caricano a testa bassa e vengono massacrati dal fuoco nemico.

Pop.

E ci sono gruppi ristrettissimi di soldati altamente addestrati che entrano in azione in situazioni critiche. Ecco, il far parte degli ingegneri informatici mi fa rientrare in un'élite: persone altamente qualificate con capacità talvolta superiori all'uomo medio e adottate in situazioni in cui il successo ha una sua criticità.

Pop, pop, pop!

Almeno, così è come la vedo io. Per il resto delle persone, io sono poco più che una scimmia che sta seduta davanti al computer tutto il giorno e che ogni tanto picchia qualche tasto mentre impreca e si nutre di schifezze. Questione di punti di vista e di sensibilità. Non posso biasimare l'uomo che capisce pochissimo della mia scienza. Come faccio a spiegare al ragioniere medio che il suo programma è stato progettato con un linguaggio che supporta almeno un paio di paradigmi di programmazione e che, cosa più importante di tutte, io quei paradigmi li so utilizzare?

Poropop!

Che nella mia mente si formano procedure e strutture dati così, nel giro di pochissimi secondi. I concetti descritti a malapena da chi ha commissionato il software si scompongono in piccole unità atomiche (pop) che portano informazione o che descrivono algoritmi complicatissimi. Come faccio a far capire tutto questo se il ragioniere medio mi vede davanti al monitor con lo sguardo fisso, un filo di bava che dall'angolo della bocca arriva fino...

...pop, pop...

...al tavolo e le uniche parole che dico sono insulti rivolti generalmente alle madri di chi ha commissionato il software? Potrà anche sembrare stupido, ma non lo è. Finché la gente normale non capirà cosa sta dietro le quinte di un programma, continuerà a pensare che l'ingegnere informatico sia una specie di automa che parla una lingua tutta sua e che è stato rinchiuso insieme ai suoi simili per almeno un paio di motivi: è pericoloso (l'apparenza inganna: non è per niente innocuo), ed è sociopatico con manie di grandezza nel migliore dei casi. Credo che per risolvere il problema si debba sdoganare la figura dell'ingegnere informatico. Ho un paio di idee a riguardo.

Pop, pop e pop.

Si potrebbe, per esempio, con l'aiuto del comune, fare una serie di incontri con la cittadinanza in cui si spiega alla popolazione cosa fa l'ingegnere informatico. Oppure si potrebbe organizzare una serie di serate in qualche locale della zona. Serate a tema ovviamente ingegneristico, ma con un occhio di riguardo anche alle ultime trovate della moda e della vita notturna. Bisognerebbe trovare qualcosa per ricucire lo strappo che si è creato e cha ha lacerato la stoffa della nostra società che ha isolato sempre più il povero ingegnere costringendolo alla riproduzione per mitosi per garantire la sopravvivenza della specie. Ecco io su queste pagine lancio il mio appello. Adottiamo tutti quanti un ingegnere informatico. Facciamo in modo che non si senta mai più solo che la vita torni a sorridergli. Rendiamo la sua esistenza felice, facciamolo sentire utilie.

Pop! POP. PoP!!!

Cerchiamo di capire la sua lingua, facciamola diventare la nostra lingua. Non lasciamo che muoia nella solitudine e nella tristezza. L'ingegnere informatico non è un animale acefalo è una persona e ha bisogno di affetto. Ha bisogno di te.

P O P!

"Di' Macaco1, ne hai ancora per molto con la carta da imballaggi, la fai finita?"
"No, io mi rilasso così."

Mi dicono sia ingegnere anche lui. Pop!

lunedì 17 maggio 2010

Paradosso provvidenziale

Bisogna essere puntuali almeno al proprio funerale. Che figura faresti con gli invitati che piangono (o festeggiano) la tua scomparsa? Tanto per non sbagliare, mi preparo e mi presento all'appuntamento con una buona mezzora di anticipo e prendo a caminare su e giù di fronte alla sala giochi dove si svolgeranno le mie esequie. Un po' mi piace pensare che morirò giocando, certo non avrei mai pensato che un paio di partite a calcio balilla avrebbero decretato la fine della mia carriera da ingegnere e il naturale suicidio cerimoniale che precederà l'effettivo licenziamento.

Per chi non fosse aggiornato, segnalo soltanto che sta per svolgersi una sfida a calcio balilla, voluta e organizzata da Macaco2. Signore e signori vi presento i contendenti di questa sera! Alla mia destra, nell'angolo buio riservato ai dipendenti ecco Macaco2 e Paul! Alla mia sinistra Mr F. e Mr M., rispettivamente supercapo e sottocapo dell'azienda che dà da lavorare ai due miseri figuri! Scroscio di applausi.

Assorto in questi pensieri da pugilato anni venti, non mi accorgo nemmeno dell'arrivo di Macaco2. Parcheggia (a momenti mi mette sotto) e salta fuori dall'auto. È tutto eccitato, sbuffa e sbava un pochino. Fa riscaldamento nel parcheggio della sala giochi. Il vento, in tutta risposta soffia ancora più forte. Prego che gli prenda un colpo o qualcosa di almeno simile a una polmonite. Si avvicina.

"Pronto?"
"Via! Ma che pronto e pronto? Ma ti rendi almeno conto in che casino ci hai messi?"

Mi guarda con occhi spenti e con la testa reclinata leggermente a sinistra. No, non se ne rende conto. Quando si riprende, ricomincia a fare riscaldamento, saltellando.

Nel giro di pochi minuti arriva anche un'altra auto: i nostri esecutori testamentari. Scendono, sono allegri e confidenti nelle loro capacità. Partono alcuni motteggi, ma dopo pochi minuti Mr F. e Mr M. chiedono che la sfida abbia inizio.

Acquistiamo alcuni gettoni e ci dirigiamo verso i mobili da gioco. Io mi metto in porta e Macaco2 si schiera in attacco, inserisce il gettone, tira la leva e afferra una pallina con modi affettati. Quando la mette in gioco il mio cuore va a mille, non so più cosa fare. Spengo la mente e lascio andare l'istinto: vada come vada.

Prima partita. Macaco2 entra subito in gioco. È bravino, veloce, abbastanza preciso, un po' fortunato. Io cerco di rintuzzare gli attacchi di Mr F. e di giocare al meglio. Ogni volta che prendo un goal Macaco2 mugugna qualcosa. Comunque, la prima partita la vinciamo 6 a 2. Se va avanti così non c'è storia.

Seconda partita. Gli attacchi di Mr F. diventano più veloci e potenti. Credo che si stia riscaldando o che stia riprendendo confidenza con il gioco. Anche io sento qualche ricordo che torna. Comincio a giochicchiare con la difesa, faccio rinvii lunghi e veloci sulle fascie, metto addirittura a segno qualche goal. Ogni volta che un missile partito dalla difesa sfonda la porta avversaria, Macaco2 esulta. vittoria per 6 a 3. Stasera la finiamo presto, penso.

Come non detto: i due boss ci recuperano e finiamo 2 a 2 nel conteggio delle partite. Macaco2 è triste, poverino.

Stessa storia: andiamo in vantaggio di 4 partite a 2 e loro ci recuperano 4 a 4. Non è facile, sta andando per le lunghe e comincio a essere stanco. Macaco2 è irritabile.

Pausa. La serata era stata organizzata per 9 partite, la prossima decreterà il vincitore. Ci propongono una variante: si vince con due di scarto. Faccio sì con la testa. Anche Macaco2 è contento.

La nona partita la perdiamo miseramente. Credo di essermi fatto anche un autogoal. "Fanne un altro così e ti metto sotto in macchina," mi minaccia il mio compagno. Andiamo bene.

La sfida prosegue. 4 a 5... 5 a 5... 6 a 5... siamo in vantaggio, manca pochissimo. L'ultima partita è tirata, do del mio meglio. Macaco2 sfodera anche qualche altro giochetto lurido per impensierire i nostri avversari. 7 a 5: fine della serata, abbiamo vinto. Ammetto di aver esultato un pochino, in modo molto contenuto, ma con entrambe le braccia al cielo. Macaco2 si mette a correre per la sala giochi con il maglione in testa cozzando ovunque e ferendosi.

Mr M, fa notare comunque una cosa: sono stati loro a vincere al meglio delle nove (come stabilito). E io ribadisco che in fin della fiera noi ne abbiamo vinte comunque di più. È una situazione paradossale. Non ci posso ancora credere: qualcosa deve essersi rotto nel motore logico che governa questo mondo: abbiamo vinto! Intendo, tutti hanno vinto! Non ci sono sconfitti, umiliati, licenziati, derisi, morti. Abbiamo vinto tutti. Con le lacrime agli occhi ringrazio il dio degli ingegneri e guardo con compassione Macaco2 che si lancia e scivola su una pista da bowling urlando il suo grido di battaglia: "Yaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah!"

Strike!

venerdì 14 maggio 2010

Pericolo dimissioni

Voltaire, nella sua infinita e illuminata saggezza, era solito mugugnare a proposito del lavoro. "Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno," andava dicendo per le strade di Francia. Per conto mio, il lavoro, il mio lavoro, non solo allontana la temibile triade, ma mi dà anche gioia.

Tra qualche ora, tutto questo finirà e io mi ritroverò disoccupato e mendicante per colpa di una scimmia poco più che antropomorfa: Macaco2. Un giorno, così all'improvviso mi guarda e mi fa:

"Calcio balilla eh."
"Cosa?"
"Calcio balilla!" Ridacchia.
"Ho capito, metti anche un verbo, così facciamo una frase completa."
"Calcio balilla," e con uno sforzo sovrumano aggiunge "giocare."
"Vuoi giocare a calcio balilla? Non ti ferma nessuno, per me puoi giocare a calcio balilla tutti i giorni, basta che lo fai lontano da me."
"Ehehehe, calcio balilla, Paul." Al che mi alzo, gli faccio partire lo screen saver così almeno i colori e le forme che mutano sullo schermo lo tengono buono per un po'.

Lascio perdere tutta la faccenda. È noto che Macaco2 ogni tanto salti fuori con una trovata demenziale, poi tutto finisce lì.

Qualche giorno dopo l'ominide reitera la scenetta.

"Calcetto! Balilla!" e intanto finge di avere fra le mani le manopole del gioco ed emette suoni imbarazzanti.
"Rieccolo. Su, dai non fare così. C'è un modo in cui io possa alleviare le tue pene? Lo vuoi del cianuro?"
"Sai giocare?"
"Beh, a suo tempo, all'oratorio giocavo in porta e me la cavicchiavo."
"Ok." Si alza e proclama all'intero ufficio che sta organizzando un torneo di calcio balilla aziendale, che lui giocherà con me e che chi non è coniglio (di gomma) deve per forza partecipare e dimostrare la propria virilità. La sfida viene ignorata dai più, ma non dal boss supremo e sempiterno.

"Calcetto aziendale? Ci sto. Giochiamo io e M. Quando?"
Con gli occhi che brillano guarda il supercapo e con aria di sfida (mentre gonfia il petto a dismisura) Macaco2 chiede che sia stabilita una data.

Attonito, cerco di pensare che tutto questo sia solo un brutto sogno. E questo non lo è proprio. La sera è stata fissata per oggi.

Ho due scelte:

1. vincere (ammesso e non concesso che sia possibile) ed essere licenziato dal supercapo.

2. perdere (appositamente) e subire le ire di Macaco2 che mi rinfaccerà la cosa per almeno un decennio, portandomi così a dare le dimissioni (perdita di lavoro), o a commettere un omi(ni)cidio (perdita della libertà).

In qualunque scenario quello che ci perderà veramente qualcosa sarò solo io. Mi rendo conto di essere un uomo misero e particolarmente sfortunato. La cosa meravigliosa è che Macaco1 (l'altro polo della coppia di corpi senza mente) sta incitando il collega peloso. Altri colleghi hanno preso parte alla faccenda creando tensione, aspettative e polemiche. Perché nessuno pensa ai miei sentimenti? Perché nessuno mi lascia vivere un'esistenza tranquilla?

Comunque, la decisione è stata presa. Stasera, fuori da qui passerò in farmacia a comperare una grande quantità di sonniferi. Se la cosa si mette per il peggio posso sempre lasciare questo mondo in modo indolore. Soprattutto senza essere licenziato! Nessuno licenzia un ingegnere (brillante e intelligente come me) per demeriti sportivi! Nessuno!

Ci saranno aggiornamenti sulla faccenda, ma se non dovessi farcela, voglio dirvi una cosa. È stato bellissimo stare con voi. Grazie per l'affetto e per la fiducia che mi avete sempre riservato. Vi voglio bene... addio!

giovedì 13 maggio 2010

Rapimento

La vita è un continuo camminare. Un piede davanti all'altro mentre ci si guarda attorno e si cozza contro la vita degli altri. Bum, ops, scusami, non ho fatto apposta, non ti ho visto, ti va di prendere un caffè insieme, facciamo domani sera, no. Un eterno urtare più o meno dolce contro altri viandanti distratti. Un piede davanti all'altro.

Sarà un bel quarto d'ora che passeggio su e giù sul marciapiede. Durante l'andata guardo per terra, poi mi volto di centottanta gradi e ritornando guardo la strada. A momenti dovrebbero arrivare quegli ignoranti dei miei compari. Ho promesso loro una serata dalle mie parti e non volendo portarli in casa li sto aspettando fuori sulla via. Il clima non è dei migliori: fa freddo e qualche goccia vagante mi ricorda che può piovere da un momento all'altro. Io, imperterrito continuo a passaggiare. Su e giù, guardo per terra, guardo la strada. Per terra, strada. Per terra... è spostando lo sguardo verso la strada che la vedo.

È alta più o meno come me e veste di chiaro. Ha in mano un ombrello che ad ogni folata di vento rischia di scapparle e volare via. Il vento le scompiglia i lunghi capelli neri. Lei se li sistema passandosi la mano libera sul viso. Mi rendo conto che la sto fissando e quando i nostri sguardi si incrociano io riprendo a guardare per terra. Come sciolto da un incantesimo mi rimetto a passeggiare poi mi fermo e aspetto. Sono teso e inerme come un soldato durante una battaglia navale. "Capitàno! Siluro a ore tre, tempo di impatto dieci secondi!" Nove, otto... la guardo ancora di sfuggita. Porta gli occhiali, la montatura è fine e le completa il bellissimo volto con un non so che di misterioso. Sette, sei... le mani sono sottili e ha le dita lunghe e affusolate, un'ombra di smalto bianco le decora le unghie. Cinque, quattro... prepararsi all'impatto, tenersi forte, il cuore sbiella. In lontananza riecheggia un clacson impazzito. Una folata più forte delle altre la fa rabbrividire, mentre cerca di stringersi addosso il suo spolverino. Sono già innamorato. Tre, due... Il clacson violenta la notte urlando bestemmie contro il silenzio. Lei affretta il passo come se scappasse da un pericoloso animale io le vado incontro con un sorriso. Uno... IMPATTO!

Riesco a dirle solo "Cia..." prima che l'auto carica di unni arrivi strombazzante. Le gomme stridono sull'asfalto e in men che non si dica tre malintenzionati aprono le portiere e saltano fuori lasciando la macchina in mezzo alla strada con le quattro frecce lampeggianti. Lei è terrorizzata e mi guarda con una supplica silenziosa dipinta sul viso mentre i barbari schiamazzano e ci circondano. Iniziano una specie di danza tribale e si avvicinano sempre di più. Cerco di rassicurarla con lo sguardo mentre le offro il mio corpo come scudo. Potranno avere me, ma prima di poterla anche solo sfiorare dovranno passare sul mio cadavere.

Poi, come ad un segnale prestabilito, tutto tace e la danza si ferma. "Di' Paul, dove andiamo?" Fa il capo della banda, quello con lo sguardo meno animalesco. Io balbetto qualcosa, che non lo so, andiamo in città e poi vediamo cosa c'è di aperto.

"La bellona è dei nostri? Ti sei fatto la morosa?"
"Eh, no, io beh, no..."
"Di' mora, sei dei nostri, andiamo a farci una birra?"

Lei fa no con la testa.

I due scagnozzi, allora, mi afferrano e mi infilano a forza nella macchina mentre il capo sale, rimette in moto e parte. Con le mani e la faccia schiacciata contro il finestrino la guardo per l'ultima volta mentre diventa un puntino bianco e irraggiugibile.

Addio, bella sconosciuta, giuro sulla testa di questi tre imbecilli che un giorno ti ritroverò!

mercoledì 12 maggio 2010

I volti del passato

Seduto al tavolo, una mano a penzoloni, l'altra stretta attorno al bicchiere. L'unica luce accesa è quella della camera da letto, così con la porta aperta crea un'atmosfera delicata. Porto il bicchiere alle labbra, reclino il capo e aspetto che l'inebriante liquido mi scenda in bocca. Scopro che il bicchiere è vuoto. Lo appoggio sul tavolo e lo riempio di nuovo. Poso la bottiglia. Riporto il bicchiere alla bocca e tracanno tutto il contenuto. Potrei pensare che tutto questo sia colpa della solitudine, ma sarebbe come mentire a se stessi. Anzi, la solitudine sarebbe la vera soluzione. Adesso voglio solo dimenticare e lasciarmi cullare dallo stordimento momentaneo e dal senso di pienezza, ma non è facile. Non con una dozzina di occhi che ti fissano, mentre lunghe facce ancestrali penzolano dalle pareti. Mentre bevo mi guardo attorno e spero che il sonno arrivi presto, perché i ricordi non hanno intenzione di andarsene.

Sono ricordi di qualche anno fa, tre direi. Un paese lontano nello spazio e nel tempo, che si porta dietro una storia millenaria fatta di guerre, di eroi, di morte e di gioia. Un paese torturato, un paese dove le canzoni sono semplici come l'eternità e parlano di qualcosa che è sempre stato e che deve ancora venire. Un paese grande come gli occhi dei bambini. L'Africa. È stato solo tre anni fa, eppure mi sembra passata una vita. Ricordo un'immensa gioia, ma anche momenti strazianti, come la partenza e di come Mwai sia risciuto a fregarmi.

"Compra l'elefante."
"No, Mwai, grazie."
"Dai, compra l'elefante."
"No, davvero, non lo voglio, grazie Mwai."
"Un elefante di Mwai per l'amico Paul."
"Non lo voglio l'elefante!"
"Non un elefante. Il mio elefante."
"No! Mi fa schifo l'elefante e non lo vogl... eddai non fare quella faccia. Davvero, non mi serve l'ele... ok dai, dammi quello piccolo. Lì, quello lì."

Mwai prende l'elefante di legno lucido e scuro quasi come la sua pelle e me lo porge.

"Compra mamma elefante."
"No, basta, Mwai, basta così."
"Dai, compra mamma elefante."
"Davvero, no, e poi senti, stanno chiamando il mio volo."
"La mamma dell'elefante di Paul. Compra la mamma."

Il volo lo stanno chiamando davvero, al che Mwai mi si avvinghia addosso implorandomi di comperare anche la mamma. Per paura di perdere l'unico volo verso la salvezza cedo al bieco ricatto di Mwai che mi lascia libero solo dopo avermi venduto la famiglia degli elefanti al gran completo, sei maschere di legno con la scritta 'Made in China' sul retro, un bongo piccolo, un bongo medio, un flauto di osso, un portafoto d'argento, uno scendiletto persiano, una calcolatrice tascabile e una cassetta di frutti di mango. Carico come un mulo cerco di guadagnare la sicurezza dell'aereo. Dichiaro che tutto il ciarpame è bagaglio a mano e me ne torno in patria mangiando manghi. Una volta a casa, in Italia, archivio tutto quanto in un ripostiglio cercando anche di non pensare ai denari gettati al vento. Speravo di aver sepolto quei ricordi per bene, ma, si sa, non si può mai fuggire dal proprio passato.

Oggi mia madre deve essere stata qui a mia insaputa. Pensando di farmi cosa gradita, ha riesumato mezza Africa e se l'è portata dietro. La immagino mentre con le sue enormi braccia pianta qualche chido strategico e ci appende le maschere afro-cinesi. Mentre dispone gli elefanti in fila vicino alla bilancia, sulla credenza, il flauto sul tavolo e lo scendiletto in camera. I bonghi sono sul divano. E io che pensavo, povero illuso, di essermi lasciato alle spalle tutto quanto!

Vuoto un altro bicchiere. Ho anche finito la bottiglia. Non fa effetto: mi sa che se voglio esorcizzare il passato, mi servirà qualcosa di più forte della Ferrarelle.

martedì 11 maggio 2010

Vestiti 2D

Tra tutti gli elettrodomestici, il ferro da stiro è quello più inquietante e pericoloso. Tanto per cominciare, sembra che respiri, che sia vivo. Manda sbuffi da toro inferocit mentre inquadra il patetico torero con il lenzuolo rosso. E poi ha una temperatura pericolosamente elevata. L'aria nelle sue vicinanze trema e si fa liquida. Tuttavia riconosco che ha un discreto fascino: in un unico oggetto dal costo contenuto (l'ho pagato 13 €) si fondono la potenza del fuoco e la mutabilità dell'acqua. Due forze della natura piegate e domate dall'uomo per appiattire le mutande.

Le mutande e tutte il resto dell'abbigliamento strapazzato dalla macchina rotante. A pensarci bene, trovo che sia assurdo tutto questo rito di lavaggio, asciugatura e appiattimento. Non si potrebbe trovare un modo di lavare i panni senza appallottolarli? In effetti non posso nascondervi che sto ideando un metodo per lavare in pochissimo tempo tutti i propri capi. Attualmente è ancora pura teoria e prevede l'utilizzo di una macchina in stile Pulivapor. Comunque non voglio anticipare altro. Quando sarà il momento conoscerete tutti i risultati della fase di progettazione e degli esperimenti condotti.

Per il momento, però, bisogna accontentarsi delle vecchie tradizioni e seguire in modo pedestre la sequenza che ci siamo tramandati di madre in figlia. I figli maschi sono stati tenuti allo scuro di tutta la faccenda, ma grazie alla mia laurea in ingegneria e alla mia intelligenza superiore, posso tranquillamente sopperire alla mancanza di informazioni. Per il lavaggio non ci sono problemi: ne ho già fatto uno a macchina vuota, basta ripetere il procedimento con dentro i panni. Riempio il cestello della lavatrice, doso il detersivo e l'ammorbidente, imposto le manopole e avvio. Eseguo tutto con la sicurezza di una massaia, non ci sono più segreti tra me e questo parallelepipedo bianco. Ammetto che comunque non è andato tutto proprio liscio. C'è ancora del margine di miglioramento. Di detersivo ne posso mettere anche meno, la quantità di schiuma è impressionante e ho temuto che la lavatrice si mettesse a eruttare lava bianca e soffice. Anche di panni ce ne devo mettere un po' meno. Più che emettere i normali rumori, la povera macchina gemeva ad ogni giro di cestello. Ha anche sferragliato all'inizio della centrifuga, ma a un rapido controllo sembra che non abbia subito danni gravi. Tra le altre cose dovrei anche impostare una temperatura più bassa. Forse novanta gradi sono troppi. Il risultato è stato comunque discreto: i panni sono puliti! Ok, il maglione non ha un bell'aspetto, ma si sa che non si può fare una frittata senza rompere qualche uova.

Aspetto un paio di giorni che i panni si asciughino sullo stendino in camera. Una volta secchi li raccolgo e mi preparo all'appiattimento generale.

Temperatura del ferro: tre pallini. Diciamo pure addio ai Celsius e ai Kelvin, bentornati all'età della pietra. Vapore: tre lineette, ovviamente. L'attrezzo dopo poco prende a sbuffare e a farsi rovente. Nel frattempo appoggio il tovagliolo sul tavolo (non ho l'asse, uso direttamente il tavolo della cucina). Afferro l'attrezzo incadescente con un po' di timore. lo appoggio sul tovagliolo scolorito (noto solo ora il colore grigiastro) e premo con tutte le mie forze. Arrivo ad usare anche due mani. Resto in posizione almeno un paio di minuti durante i quali il ferro sbuffa sempre di più. Alzo il ferro e lo sposto su una porzione del tovagliolo ancora spiegazzata. Ripeto finché il piccolo quadrato di stoffa è perfettamente piatto. Tempo dell'operazione: 13 minuti.

Sudato e ansimante guardo la pila di roba da stirare: sarà una lunga serata.

lunedì 10 maggio 2010

Abominevole tecnologia

Internet, un mondo pieno di possibilità, di informazioni, di divertimento. Un arcipelago in cui navigare con la propria barchetta sospinta dalla brezza della curiosità. Un luogo (nel senso lato del termine) in cui tutto e il contrario di tutto convivono con la stessa dignità e senza annichilire (come fu tanto tempo per materia e antimateria, o almeno così sta scritto su un sito che ho trovato). Un luogo che mamma yeti frequenta nel tempo libero.
Adesso che sono fuori casa il tempo libero di mamma yeti è aumentato. So che accende il computer e se la viaggia nella rete anche la sera. È facile da intuire: quando mamma yeti digita sulla tastiera, i sismografi dei dintorni segnalano sempre piccole scosse che i geologi archiviano come 'scosse di assestamento'. La cosa che gli scienziati non riescono a spiegarsi è la ritmicità della faccenda. Ogni scossa è distanziata dalla precedente da circa 2 secondi. Così www.google.it diventa tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum, tum... TUM! Il tum finale è il tasto di invio. Per usare quello, mamma yeti adopera tutta la mano destra.

I sobbalzi tettonici avvertiti venerdì sera mi hanno fatto venire in mente un'idea geniale per la festa della mamma, così sabato pomeriggio mi sono recato nel negozio più vicino ad acquistarle una tastiera nuova di zecca. Domenica mattina, bello come il sole, mi presento dai miei e porgo a mamma yeti la tastiera nuova di zecca. Lei, da vera mamma, prima ancora di capire cosa sia la scatola di cartone, mi abbraccia con grande trasporto e una lacrimuccia le riga il volto. Risultato netto: ho due costole incrinate e una microfrattura allo sterno. Niente che un paio di settimane di riposo non riescano a sistemare. Il pranzo passa in allegria e mammina è felicissima del nuovo soprammobile, mi fa un sacco di feste e (dato che mi trova anche un po' patito) mi rimpinza con porzioni abbondanti delle sue migliori pietanze.

Nel pomeriggio, dato il bel tempo e l'impossibilità di andare in moto, le attacco il soprammobile nuovo al computer. Lei passando mi vede intento a trafficare con i cavi e mi fa:

"Ah, Paul, è lento eh," mentre indica il montior.

Capisco l'antifona ed essendo di buon umore decido di fare una bella revisione globale: le installo Ubuntu, quello nuovo, un po' più leggero e sicuramente migliore per quello che deve fare lei.

L'installazione normale va su in dieci minuti circa. Le cinque ore successive le investo nella configurazione di lingue, programmi personalizzati, posta e la maledettissima stampante USB. Non vi dico i giri che ho fatto, cosa ho installato e disinstallato nei vari tentativi. Sono arrivato anche a minacciare la stampante con un martello in mano. Mamma yeti si preoccupa sempre quando nota dell'animosità nei confronti di oggetti. Comunque, alla fine riesco a mettere tutto a posto, la chiamo e le faccio vedere il prodigio.

"Questo qui è Ubuntu."
"Bunto?"
"Ubuntu."
"Bunto!"
"Ok, Bunto: il tuo nuovo sistema operativo."

Mi guarda e nei suoi occhi vedo il vuoto siderale. Le mostro cosa può fare e cosa non può fare (non stampa a colori per il momento, ma ci lavorerò ancora su). Dopo che le ho illustrato tutto quanto un paio di volte, lei sentenzia:

"Praticamente è uguale a prima solo che scrivo in bianco e nero." Non sembra soddisfatta.
"Beh praticamente..."
"Ma... è almeno veloce?"
"Beh credo di sì. Prova."

TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, TUM, T U M! Il telegiornale locale irrompe con l'allarmante notizia di una scossa del sesto grado.

Quando la pagina internet compare mi guarda e nei suoi occhi c'è solo gioia. Mi coglie all'improvviso e mi abbraccia ancora.

Il medico mi ha detto che devo stare a riposo e che le sette costole si risistemeranno con il tempo.

Auguri Mamma.

venerdì 7 maggio 2010

Dolcezza notturna

"Cosa fai giovedì sera?"
"Mi metto il sacchetto del pane in testa e canto le cazoni di Ray Charles mentre tengo il tempo spernacchiando con la mano sotto l'ascella."
"Ah... capisco, quindi sei molto impegnato?"
"Direi di sì, perché?"
"No, beh, pensavo magari di fare un salto da te" e si affretta ad aggiungere "sempre se non disturbo eh!"
"Sì, disturbi."
"Quindi potremmo fare verso le nove?"
"Certo che no. Piuttosto mi imbottisco di sedativi e vado a letto alle cinque del pomeriggio."
"Ah, soffri di insonnia? Non lo sapevo eh, brutta storia. Pensa che anche un mio amico..."

Parte il resoconto dettagliato dello stato di salute di un tale che non ho mai visto in vita mia. A questo qui mancano l'udito, l'intelletto e, credo, un paio di venerdì. Lo conosco da quando eravamo bambini e non me lo scrollerò di dosso molto facilmente. La buona notizia è che probabilmente si sarà dimenticato di stasera e ad ogni modo non sa dove abito, quindi posso stare tranquillo. Per essere del tutto sicuro che nessuno mi trovi in casa, decido di fare due passi in città (qui vicino). Mi cambio e vado a recuperare il cellulare con l'intento di spegnerlo. Lo trovo che lampeggia, vibra e canta. Vorrei lanciarlo contro il muro ma mi è costato un patrimonio e il solo pensiero mi fa star male.

"Pronto?"
"Oh ciao! Hai da fare stasera?"
"Ho lezione di canto, ricordi? Ray Charles..."
"Sì sì, io sono davanti a casa tua eh, ma non trovo il citofono."

Chiudo la chiamata e così, per pura curiosità vado a vedere se è veramente qui. Apro la porta e constato la presenza di una persona vagamente familiare. Sul volto ha stampato un sorriso ebete e mi fissa. In mano ha qualcosa che somiglia a una scatola di cioccolatini. Chiudo la porta, ho certamente avuto un'allucinazione, devo essere molto stressato ultimamente. Riapro ed è ancora lì.

"Beh, non mi fai entrare?"
"Piuttosto mi impicco al lampadario. E poi stavo per andare a letto."
"Con jeans, camicia e scarpe?"
"Io dormo così."

Richiudo la porta nella speranza che se ne vada. Ho ancora in mente di andare a farmi due passi, ma con lui lì davanti la vedo dura. Potrei uscire dalla finestra (abito a piano terra), ma mi vedrebbe comunque. La fregatura è che le altre finestre danno comunque su un cortile interno la cui unica uscita è proprio dove sta piantato lui. Impreco un pochino e alla fine decido di uscire.

La serata è un senso unico: ci infliamo in un barettino, ordiniamo due birre, lui parla io fingo di ascoltare. Sembra raggiante, ha cambiato lavoro da poco ed è soddisfatto di aver mollato il capo che lo tiranneggiava. Adesso si è trovato un lavoro al mio paese.

"Ti ricordi di V?"
"No."
"Ma sì, dai V! Bella ragazza, occhi scuri capelli mossi."
"Ti ho detto no."
"Impossibile! Ci sei stato insieme un anno figurati se non te la ricordi. Sai, adesso lavoro nel suo laboratorio. È così gentile e non mi tira matto tutto il giorno eh. Ah, e parliamo un sacco di te. Mi racconta di quando eravate insieme e delle parole dolci che le diceve sempre. Mi ha anche fatto vedere le lettere che le spedivi. Non ti facevo così romantico."
"Infatti non lo sono. E sono anche analfabeta."

Per non ascoltare afferro il bicchiere e spero che l'alcol mi aiuti a passare la serata. Ho ricordi confusi, ma a un certo punto riesco a produrre uno sbadiglio colossale. Lui capisce l'antifona, ci alziamo, paga (almeno questo!) e torniamo verso casa.

"Beh, Paul, grazie per la bella serata eh. Ah il nostro Paul è diventato grande! Sai, al paese ci manchi già."
"Non sono mica emigrato in Alaska e poi ci vediamo tutti i weekend eh... come faccio a mancarvi?"
"Beh io vado" mi fa mentre io tento di guadagnare la sicurezza di casa. Entro alla veloce, spengo le luci e mi metto alla finestra a controllarlo. Se ne va dopo un quarto d'ora portandosi via i cioccolatini.
Stronzo, almeno quelli me li poteva lasciare!

giovedì 6 maggio 2010

I pensieri del divano

Non puoi parlare di vita senza parlare di piccoli momenti. La vita in sè non esiste è semplicemente la sequenza di tanti momenti che vanno a finire nel calderone dei ricordi. Di sera divento sempre un po' filosofo e stasera, qui sul divano, faccio pensieri dolci. È l'unica cosa che posso fare, dato che non sento più le gambe. Nota per me, se domattina non riesco ad alzarmi dal divano devo chiamare qualcuno per farmi portare al lavoro.

Il primo piccolo momento della mia giornata (dopo il lavoro) è stato l'allenamento. Una volta a casa, ho infilato le scarpe e sono uscito a correre. Evito il paese, mi dirigo verso la campagna che giace tra R e Z. Il paese è troppo pericoloso: ci sono porte che si aprono all'improvviso e i ragazzini si divertono fin troppo quando divento paonazzo e sbuffo come un treno. La campagna è molto meglio. Guardo il cielo e mi sembra un mare in tempesta, le nuvole sono cavalloni e mi auguro che piova. La sensazione delle goccioline addosso! Corro, mi stacco dall'asfalto illuminato dai led intermittenti delle scarpe. L'obiettivo di giornata è il chilometro, e naturalmente una volta a casa, togliere le pile alle scarpe. Mi superano, nell'ordine, un tizio in bicicletta, una ragazza a piedi, un paio di bambini che giocano e un signore, molto distinto, con il bastone. Mentre mi passa di fianco mi incita "Animo, animo! Su con quelle gambe." Obiettivo raggiunto, mi giro di 180 gradi e torno verso casa. Ho sete, tanta sete e non piove ancora. Almeno, con l'acqua sarebbe tutto più semplice. Non ricordo il rientro, la mia mente deve avermi abbandonato a metà strada: il dolore e la fatica sono disumani. Nello stesso istante in cui infilo la chiave nella toppa inizia a piovere. Alzo le mani al cielo e impreco moltissimo.

Il secondo piccolo momento della giornata è stata la preparazione del ragù. Molto semplice: mezzo chilo di carne macinata (l'ho comperata la settimana scorsa), polpa di pomodoro, olio e rosmarino. Ho deciso di fare il sugo perché la carne, nonostante l'abbia tenuta in frigo, ha un colore che non mi dà l'idea di un animale morto, diciamo che mi suggerisce di più la presenza di tanti piccoli nuovi organismi forse senzienti. Preferisco una strage e un po' di ragù al dubbio. Sbatto tutto in una pentola assieme a mezzo litro d'acqua. Fuoco vivace, coperchio e via. Dopo che la pentola straripa la seconda volta spegnendo il gas e rischiando di farmi fuori (sono loro, i maledetti milioni di piccoli organismi che vogliono vendetta), levo il coperchio. L'acqua però evapora molto più in fretta e il risultato netto è che adesso devo trovare un modo per separare il sugo dall'acciaio della pentola, anche se non credo di avere gli strumenti adatti. Riproverò domani.

Il terzo piccolo momento della giornata è stata la rilassante lettura di un romanzo che mi ha prestato Macaco2. Ebbene sì, possiede dei libri e a detta sua li legge anche. Io credo che li usi più come fermo per le porte, o per creare strati di isolamento contro il freddo. Mi ha portato un libricino di circa duecento pagine (alla media di una pagina al giorno nei giorni feriali ci metto meno di un anno a leggerlo). In effetti sono alcuni giorni che lo sto leggendo e credo che più che romanzo si tratti di un inconcludente tomo soporifero di rara autocelebrazione. Purtroppo nelle mie condizioni fisiche (non riesco più ad alzarmi dal divano) è l'unica cosa a portata di mano e l'alternativa sarebbe fissare il soffitto aspettando il sonno o la morte per disidratazione.

Piccoli momenti in sequenza, penso, mentre uno strano torpore mi annebbia la mente. Ma possibile che non ne vada dritto uno?

mercoledì 5 maggio 2010

Rotante macchina da mutande

Ceno (pop corn e chele di granchio comprate in rosticeria), lavo il piatto e mi accascio sul divano. Lascio che i pensieri fluttuino liberamente.

Realizzo che ogni essere umano è formato da due parti indissolubilmente simbiotiche: corpo e mente. Sussurro una preghiera al buon Dio implorando che mi sia tolta per un po' la parte 'corpo'. Dopo l'impresa titanica di ieri (700 metri a piedi) sono devastato. Scientificamente sono solleticato dalla presenza di muscoli che nemmeno dubitavo di avere, ma la scoperta oltre che fortuita non è certamente piacevole. Ho male ovunque, questa agonia mi annebbia la mente e rende la mia vita insopportabile. Non merito di essere ridotto così solo per aver dato voce a un istinto primaverile. Chiudo gli occhi e cerco di dominare il dolore.

Realizzo anche un'altra cosa molto più prosaica: devo fare la lavatrice altrimenti resto senza mutande. Mi alzo a fatica (e imprecando, ma senza cattiveria) dal divano e vado in bagno. È la prima volta che faccio la lavatrice (è arrivata da poco e prima i panni li lavava mia madre, santa donna). Non sento nemmeno l'emozione delle prime volte. Senza troppa convinzione afferro il libretto di istruizioni.

"Grazie per aver comprato ecc. ecc."

Dopo mezzora che leggo mi rendo conto di non aver imparato ancora nulla. Qui dice di fare un primo lavaggio a vuoto. Non capisco perché, forse bisogna lavare l'aria all'interno nella lavatrice in modo tale che le mutande trovino un'ambiente sterile onde venire mondate. Sì, deve essere per forza così. Apro l'oblò, mi metto a soffiare a pieni polmoni e sventaglio con le mani per fare entrare più aria possibile. Chiudo l'oblò.

Ok, questione detersivo. Apro il cassettino e ci trovo tre vaschette separate. Con il bottiglione di detersivo formato famiglia in mano (mi durerà in eterno, presumo), cerco di razionalizzare la distribuzione. Riempio la prima vaschetta a sinistra. Riempio la seconda. E la terza solo a metà: vado al risparmio dato che questi beveroni chimici costano un patrimonio.

Sul pannello di controllo della lavatrice ci sono due manopole. Su quella di sinistra, sono indicati dei simboli. Credo siano Maya, anzi ne sono sicurissimo. Dato che sono ingegnere e non antropologo, mi affido al caso (legge dei grandi numeri: prima o dopo la combinazione giusta la trovo). Sulla manopola di destra, invece sono riportate delle temperature esperesse in gradi centigradi. Avrei preferito i Kelvin, ma non si può avere sempre tutto dalla vita. La scelta ovvia (devo sterilizzare l'aria) è la temperatura più alta: 90 gradi.

Check finale. Oblò chiuso, cassettino con il detersivo chiuso, manopole sistemate sulla combinazione giusta, spia lampeggiante. Sicuro come un aviatore premo il pulsante di start. La spia cessa di lampeggiare e sento un 'tac' sospetto. La lavatrice a questo punto comincia a lamentarsi emettendo un suono tipo aspirapolvere. Mi viene il dubbio di non aver aperto il rubinetto dell'acqua. Con uno scatto felino, che mi costa uno strappo all'unico muscolo ancora sano, mi butto sul rubinetto e apro in tutta fretta. La macchina smette di lamentarsi e produce suoni già più piacevoli.

È il primo lavaggio, quindi decido di rimanere assieme alla lavatrice per un po'. Tanto non credo che ci vorrà molto. Dopo venti minuti la cosa diventa sospetta: nella lavatrice si è formata una massa di schiuma che non oso immaginare dove andrà a finire e soprattutto la lavatrice non ha ha ancora finito.

Aspetto. Sempre più schiuma, sempre più sonno. Mi siedo di fianco alla macchina e aspetto ancora.

Quando mi risveglio è ormai mattina. La macchina è ferma e la schiuma se n'è andata. Lavaggio mutande: scienza imperfetta.

martedì 4 maggio 2010

Follie di primavera

Inquietudine è avere dentro un'idea ancora informe. Una di quelle idee che faticano ad uscire, ma che una volta nate, hanno la potenza di portarti al cambiamento, di farti muovere. Idee di questo tipo non vanno mai sottovalutate. Inoltre, se guardi in retrospettiva, ti accorgi che i grandi cambiamenti e le decisioni più importanti sono prese proprio a ridosso della nascita di queste piccole, stupide idee. Oggi è nata un'idea che stavo covando da qualche tempo.
Comincio a correre.

Check list per iniziare: scarpe, maglietta, pantalocini e fascia per il sudore da ficcarmi in testa. Fuori dal lavoro mi fiondo in un grande magazzino di roba sportiva e comincio a girare con circospezione nel reparto scarpe. Si avvicina l'implacabile commesso con il sorriso a settantadue denti.

"Hai bisogno?"
"No, è che mi eccito con l'odore di gomma e allora sono venuto qui."
"Se stai cercando delle scarpe è meglio se guardi il reparto qui a destra dove stanno quello da uomo," mentre indica la calzatura che ho in mano. Non ci avevo fatto tanto caso, ma è rosa con i brillantini. La ripongo pensando che in fondo non mi dispiaceva del tutto.

"Numero?"
"Pi greco, il mio preferito."
"No, intendo, che numero porti?"
"Quaranta."

Comincia a frugare, ad aprire scatole e a parlare da solo. Mugugna robe tipo presa al suolo, accelerazione, ammortizzamento, elasticità. Alla fine produce una scarpa e ma la mostra tenendola in mano come se fosse una reliquia.

"Quanto costa?"
"180 euro: è in offerta eh."
"Sì, bella, ma non hai qualcosa di più economico."

Parte una sessione degna del mercato di Marakesh. Lui fruga, mostra e declama qualità e prezzi. Io faccio no con la testa finché non troviamo un accordo. Il modello che fa per me costa ventidue euro e mezzo, è colore merda di gatto e sui talloni ha un paio di led blu che si illuminano a tempo con il passo. Fantastica! Pago, esco e mi catapulto a casa.

Maglietta, pantalocini, scarpe ed esco di casa (ho dimenticato la fascia). Chiudo a chiave e mi incammino fuori dalla corte. Faccio un minimo di riscaldamento, passeggio un po' a passo spedito, poi il allungo sempre più finché non raccolgo le braccia e mi sollevo da terra. Sto correndo!

Un passo dopo l'altro e il paese vola via. Le vetrine dei negozi ancora aperti, la posta, la banca, il macellaio, il panettiere e il fruttivendolo dove rischio di schiantarmi contro la porta aperta all'improvviso da un cliente. Sento il cuore che comincia a battere più forte. Dovrei andarci con calma, senza esagerare, che è la prima volta che esco, ma non mi ascolto. C'è un animale selvaggio dentro me e il paese è la mia prateria. Alzo il ritmo, corro, volo e i led delle scarpe lasciano una scia blu incandescente che acceca i passanti.

Battiti e passi, passi e battiti. Il due cilindri dentro me prende un ritmo forsennato, forse è meglio se rallento. Sudo da matti, sbuffo come una locomotiva a vapore, ho un caldo tremendo e le gambe dolgono. Anche la milza fa male e sento come se pulsasse un po', così la comprimo con la mano. La vista comincia a offuscarsi e i suoni si fanno ovattati. Mi ero immaginato la morte in modo un po' diverso, diciamo a forma di radiatore di camion, ma, ok, mi sta bene anche così.

Rallento. Riprendo a camminare poi mi fermo con le mani sulle ginocchia, piegato in due dalla fatica. Cerco di riprendere a respirare. La milza smette di farmi male. Recupero la posizione eretta. Mi guardo intorno per capire dove sono e per valutare il rientro. Avrò percorso non meno di 700 metri in un quarto d'ora. Soddisfatto, mi metto a fare l'autostop sperando che qualche anima pia mi riporti a casa.

Bellissimo, domani si fa il bis.

lunedì 3 maggio 2010

Arte divina

Sabato sera. Una sera di quelle in cui esci più per abitudine che per voglia. Ti vesti anche benino, tanto per far finta che sia una sera diversa dalle altre. Jeans, camicia, maglioncino. Annuso l'aria mentre salgo in auto. Questa è aria di pioggia, si porta dietro quel non so che di inquietudine elettrica che precede il pianto. Penso a domani e alle bassissima probabilità di andare in moto a farmi un giro. chiudo la portiera dell'auto e giro la chiave mentre impreco, ma senza cattiveria o foga, solo per abitudine. Cinquecento metri più in là mi fermo. Al bar del paese M e G sono già arrivati. G ha un bicchiere in mano e M è appoggiato mollemente al bancone. Manca F all'appello, ma arriverà come al solito in ritardo. M, G e F sono tutti soldati dell'armata unna che mi ha invaso casa qualche tempo fa. Di fatto, per loro non è cambiato nulla, tanto tutti i weekend me ne torno al mio paesello e il sabato sera ci vediamo ancora. Un'altra abitudine, credo, ma mi fa piacere avere qualcuno da cui tornare. Soprattutto se disinteressato. Quando arriva F parte qualche insulto automatico. "Ti sembra questa l'ora?" e "Facevi prima a startene a casa!" sono gli apprezzamenti di M e G. Questa storia si ripete da almeno una decina di anni. M e G arrivano, ordinano e si adagiano sul bancone, arrivo io, arriva F, insulti misti.

"Che si fa?"
"Si aspetta."
"Cosa?"
"La morte o la sbronza, quella che arriva prima."
"Anche stasera?"
"Hai idee?"
"Andiamo nella città grande."
"No", "No" e "No" sono le nostre tre risposte. In sequenza a partire dal più giovane.
"Guido io, se volete," fa F, "Anche perché sulla macchina del Paul ci ho schifo a salire."
"Mmm... ok. Affare fatto."

La città grande è, beh, una città grande a una mezzora di viaggio dal mio paesello, piccola efelide sul viso arato di questa terra. Ci andiamo di tanto in tanto quando proprio il barettino ci sta stretto. Nella città grande ci sembra di essere diversi, forse più liberi. Si cammina per strada e si guardano le ragazze. Si fanno apprezzamenti pesanti e si ride molto. Ci si sente anche piuttosto stupidi, ma è questo il bello, il gioco per cui vai lì.

Arriviamo in vista della periferia sud della città grande quando il display sul cruscotto segna le 00.00. Nello stesso istante un rumore secco ci passa di fianco coperto da una carrozzeria rossa. Appena sopra la ruota di destra è tatuato un cavallino rampante su uno scudetto giallo. I vetri sono oscurati. La fiancata è bassissima. I fanali posteriori sbucano dalla carrozzeria. Non si sente più la radio. Tutti la guardiamo, chi con invidia, chi con indifferenza (io: costa troppo, consuma troppo, è sicuramente scomoda) e chi con la lussuria negli occhi. F con voce quasi tremante annuncia la divina venuta:

"Ferrari. Enzo. Rossa."

Praticamente la divina trinità. La Ferrari davanti a noi mette fuori la freccia e supera un'auto blu. F, come se fosse appena stato abbandonato dall'amata, scala una, due marce e supera il rottame blu che si intromette tra lui e l'oggetto del suo desiderio. Entriamo assieme alla Ferrari nella città grande. Le vie si fanno sempre più strette (e sempre più con due sole corsie). C'è un po' di traffico, e francamente mi sembra che il coso rosso lì davanti non sia proprio maneggevole. una sorta di benedizione per F, che non molla la Enzo per nessun motivo. Sta guidando in un preoccupante stato di trance enciclopedica.

"Ferrari, Enzo, prodotta in 400 esemplari tra il 2002 e il 2004. Segue quell'aborto dell'F50 nella dinastia delle supercar di Maranello. Motore V12 longitudinale. Cilindrata 6000cc. Potenza 660 CV. Velocità di punta non dichiarata, superiore comunque ai 350 chilometri l'ora. 0-100 in 3 secondi e 65. 1255 kg a secco. Pneumatici..."

Sugli pneumatici perdo la pazienza.

"Ebbasta, con 'sta litania, che è? È una macchina come tutte le altre."

F in effetti la smette di snocciolare dati e numeri e si gira per guardarmi. Lo guardo pure io, sul volto ha dipinta l'epsressione ebete di chi sta in grazia di Dio. E, potrei sbagliarmi, ma o l'auto di F ha due leve del cambio o F ha un'erezione gigantesca. Cerco di non guardarlo più e mi giro di scatto verso il finestrino opposto. M e G intanto se la ridono, stravaccati dietro.

Ad un tratto la Enzo fa lampeggiare la freccia di destra mentre le si illuminano gli stop. Il muso punta verso un parcheggio. Con riflessi degni del miglior Fangio, F inchioda e va a parcheggiare proprio dietro la Enzo, direttamente in un posto riservato ai disabili, ma con metà posteriore sulla linea di stop di una via laterale. La rossa non è ancora spenta e già F sta uscendo dalla sua auto. Io impietosito gli faccio una mezza manovra e perfeziono il parcheggio. Se qualcuno ha qualcosa da ridire, basta che gli facciamo vedere l'idiota che sta girando attorno alla Ferrari e il certificato per disabili ce lo dà subito.

F compie vari giri di spirale attorno al bolide mentre le portiere ad ala di gabbiano si aprono. È preso dall'eccitazione, credo che stia anche piangendo. Io, ho l'opportunità di vedere l'auto da ferma. Beh, mi sembra un po' più bella in foto che dal vivo. Dalla rossa scende una coppia sulla quarantina. Lui, alla guida, gonfia il petto e ride soddisfatto in direzione di F.

"Vuoi salirci?" fa al mio amico. F, in tutta risposta, cade in ginocchio a mani giunte e comincia a mugugnare qualcosa del tipo "no, figuriamoci, non sono degno di lei, io sono solo un umile peccatore." Alla fine cede alla tentazione e si infila sul sedile emettendo suoni imbarazzanti.

"Eheh, ti piace? Peccato perché è proprio lurida, devi vedere quando la lavo per bene. Splende."

Io penso alla mia di macchina. L'unica parte pulita è la scritta 'LAVAMI' sul lunotto. Questo sì che significa lurido.

Passano alcuni minuti durante i quali F si riprende. Scende e ringrazia inchinandosi profondamente a mo' di giapponese. Si gira verso di me.

"Hai fatto qualche foto?"
"Sì, non ti preoccupare."
"Grande, grande! Visto che avevo ragione a volere venire? Che serata! Che serata!"

Bisogna festeggiare: F è talmente contento che offrirà lui i primi due giri e qui di fianco c'è giusto un pub.