mercoledì 26 maggio 2010

La sorte del vinto

Siamo al bar, io, un paio di unni e C. C è una bella ragazza che frequenta l'armata unna, soprattutto nel weekend. Pare che si diverta un mondo ad agghindarsi, a farsi bella e poi a mostrarsi ai barbari mentre i brillantini sulla maglietta nuova risplendono. In questi anni, poi, ha provato almeno una cinquantina di acconciature differenti e di varianti di trucco. Se stiamo ad ascoltare l'aritmetica combinatoria, questa qui ha la possibilità di essere un numero infinito di persone diverse. Sabato sera, per l'occasione, indossa una magliettina bianca, un gilet rosa di quelli corti corti con le maniche lunghe, una gonna al ginocchio e un bal paio di scarpe con i tacchi da 10.

All'improvviso, mentre il sopore della notte e il torpore dell'alcol avanzano inesorabili, uno degli unni salta su e fa: "Biliardo." Non è una domanda o una proposta è il suo preciso intento. L'altro unno, mentre stringe il boccale di birra tiepida, alza lo sguardo vuoto e mugugna qualcosa.

"Biliardo?"
"Biliardo."
"Biliardo!"
"Paul, sei dei nostri." Fanno due squadre. Un unno è con me, l'altro è con C.

Spacco. Io non sono molto bravo a giocare, ma finché è per divertirsi ci sto. Tiro e cerco almeno di colpire le palline giuste. Faccio anche qualche punto. A turno ci chiniamo sul tavolo verde e, stecca alla mano, diamo un bel colpo alla boccia bianca. Mentre uno gioca, gli altri si fanno passare il gessetto con l'aria da giocatore consumato. La partita va meglio del solito. Al momento abbiamo sparato la bianca fuori dal tavolo solo due volte e abbiamo disegnato appena tre righe sul tappeto.

C si diverte un mondo a tirare, anche perché sa che tutte le volte che si corica sul tavolo ha addosso sei occhi. Cerca di provocare i nostri istinti più bassi con pose sensuali, ma per noi basta molto meno. Sbaviamo copiosamente. A metà partita, il mio barbaro propone: "Scommessa."

"Scommessa." Gli fa eco l'altro ebete.
C se la ride un po' e fa la faccia furba. "Scommessa." E guardano tutti quanti me. Titubante mi mordo il labbro.

"Se perdiamo, Paul si mette su le scarpe di C e va a farsi quattro passi fuori."
"Ma perché io?"
"Perché sei il più sacrificabile."
"E se vinciamo? C si mette le mie mutande?"
"No, direi di no, zitto e tira."

Tiro. Buca. L'ultima della serata. Da qui in poi gioco contro tre persone: la squadra avversaria e il mio unno che già pregusta la mia umiliazione. Cerco di dare del mio meglio ma niente da fare. C mette in buca la 8, la maledetta pallina nera che segna la fine della partita e mi guarda ammiccando. Con un'eleganza tutta femminile si sfila le scarpette e me le porge.

Me le rigiro in mano, le guardo, le studio, cerco di capire come una persona sana di mente possa solo pensare di acquistare queste cose qui che più che scarpe mi sembrano strumenti di tortura. Rosa per di più. Mi siedo, mi slaccio una delle mie e comincio il complicato rituale per indossare la sinistra. Spingo, tiro, accomodo il piede, spingo ancora mi alzo, picchio il piede per terra, spingo, mollo, non desisto, urlo di dolore. Una infilata. Ripeto il rito con la seconda. I tre mi guardano con compassione e con le lacrime agli occhi dalle grandi risa. Mi fanno segno di alzarmi dalla sedia. Punto nell'orgoglio, mi alzo. Porto un piede davanti all'altro, scivolo, la caviglia cede, sento un suono raccapricciante di tendini che si rompono e volo per terra baciando il pavimento. Cerco di far forza sulle braccia, mi rialzo e ritento. Niente, non va: cado ancora. Riprovo con rabbia, ma il risultato è sempre questo. Rimango lì per terra a ponderare le ingiustizie della vita e ad assaporare la vista delle gambe nude di C da uno splendido punto di vista.

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