venerdì 21 maggio 2010

Sensi

Mi ritrovo seduto a pensare. L'aria fresca della sera entra dalle finestre e porta con sè odore di umidità e di terra e della primavera che ha preso il sopravvento sul gelo dell'inverno. Nella tranquillità di casa posso concedermi il lusso di chiudere gli occhi e vivermi con tutti gli altri sensi.

Posso frugare con la mente nei ricordi e pensare all'inizio di questa avventura solitaria, di questo viaggio. Sì, perché in fondo tutta la vita è un viaggio. Sei sempre in movimento, il cambiamento è paradossalmente l'unica cosa costante durante tutto l'arco dei tuoi anni. Ti ritrovi a piangere per un ginocchio sbucciato e poi ti scopri eccitato il minuto prima di un esame importante all'università, ad ansimare di piacere con una ragazza, a soffrire e maledire nel momento dell'abbandono. Ripercorri momenti, immagini, sapori, odori, ferite, musica.

Il primo concerto dal vivo a cui hai assistito, l'emozione del gruppo che invade il palco, ululando e tu impietrito e con gli occhi sgranati, nella polvere e nel caldo del tendone ma con un sorriso nel cuore. La musica che ti penetra nella pelle, nella carne fin dentro nelle ossa cercando l'anima. La musica che ti fa sanguinare, una frase e una melodia che si sposano e scatenano un turbinio di emozioni.

La stessa frase che ti trovi a canticchiare, anni dopo, sotto la doccia mentre ti passi una spugna ruvida sulla schiena e l'acqua di crivella di minuscoli colpi, ma senza ferire. Lenzuola di raso che grattano durante le notti d'estate, il caldo, il sudore che cola in mezzo alle scapole, l'aria del ventilatore che ti soffia sui piedi nudi mentre cerchi ristoro sul freddo marmo del pavimento. O il tepore delle coperte nelle mattine di febbraio, quando la sveglia urla e tu ti fingi sordo per non alzarti mai. Ti augureresti che quel tepore diventi eterno. L'abbraccio di una donna, di una madre, caldo, avvolgente, schietto. Le labbra che sfiorano la tua gota folta di barba incolta e della fatica della settimana.

E gli anni passano, passano i mesi e i giorni e il mondo si colora. Si fa grigio di nebbia fitta che ti copre gli occhi e ti bagna le ossa. Poi la nebbia ghiaccia e tutto diventa bianco di brina. Ragni di vetro penzolano dalla ringhiera del cortile finché non arriva la prima neve. Amo il bianco sulle strade e il colore del caffè caldo quando non puoi andare al lavoro. E il sole! Il sole bianco delle mattine di inverno, anemico, che si colora di sera per la vergogna. Poi, come per scommessa torna a farsi tondo e rosso e la primavera irrompe, verde e rosa e bianca con le strade fitte di magnoglie stellate, già destinate a lasciare il passo alle foglie scure dell'estate con i suoi colori decisi. Il giallo della terra, il verde dei campi e il rosso dei frutti. Ultimi ricordi prima dell'autunno rosso di caduci castagni.

Con i suoi odori, quando la morte delle foglie è la nascita di una promessa, quando le pioggie tolgono la polvere dell'estate e l'aria torna a profumare di antico. L'aroma del legno tagliato e della terra ancora una volta nuda e scura, rivoltata, violentata dagli aratri. Il profumo dei vestiti pesanti che riemergono dall'armadio e ti avvolgono teneramente. La tua vecchia felpa che usi in casa, quella con gli orli ormai logori. Quella con le maniche larghe che ti scendono sempre quando cucini e tu continui a tirarle sopra i gomiti mentre rimescoli la zuppa.

Rigiri il farro, il prezzemolo e i fagioli. Li amalgami con cura per ore mentre i crostini si scaldano nel fornetto. Poi ti versi la zuppa nel piatto e la mangi con ingordigia, ti scotti la lingua e maledici te stesso. E ti complimenti perché la tua zuppa è proprio buona e sa di casa. Una zuppa che verrà...

Per ora resto qui, seduto, con le braccia a penzoloni a pensare e ad annusare l'aria.

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