giovedì 13 maggio 2010

Rapimento

La vita è un continuo camminare. Un piede davanti all'altro mentre ci si guarda attorno e si cozza contro la vita degli altri. Bum, ops, scusami, non ho fatto apposta, non ti ho visto, ti va di prendere un caffè insieme, facciamo domani sera, no. Un eterno urtare più o meno dolce contro altri viandanti distratti. Un piede davanti all'altro.

Sarà un bel quarto d'ora che passeggio su e giù sul marciapiede. Durante l'andata guardo per terra, poi mi volto di centottanta gradi e ritornando guardo la strada. A momenti dovrebbero arrivare quegli ignoranti dei miei compari. Ho promesso loro una serata dalle mie parti e non volendo portarli in casa li sto aspettando fuori sulla via. Il clima non è dei migliori: fa freddo e qualche goccia vagante mi ricorda che può piovere da un momento all'altro. Io, imperterrito continuo a passaggiare. Su e giù, guardo per terra, guardo la strada. Per terra, strada. Per terra... è spostando lo sguardo verso la strada che la vedo.

È alta più o meno come me e veste di chiaro. Ha in mano un ombrello che ad ogni folata di vento rischia di scapparle e volare via. Il vento le scompiglia i lunghi capelli neri. Lei se li sistema passandosi la mano libera sul viso. Mi rendo conto che la sto fissando e quando i nostri sguardi si incrociano io riprendo a guardare per terra. Come sciolto da un incantesimo mi rimetto a passeggiare poi mi fermo e aspetto. Sono teso e inerme come un soldato durante una battaglia navale. "Capitàno! Siluro a ore tre, tempo di impatto dieci secondi!" Nove, otto... la guardo ancora di sfuggita. Porta gli occhiali, la montatura è fine e le completa il bellissimo volto con un non so che di misterioso. Sette, sei... le mani sono sottili e ha le dita lunghe e affusolate, un'ombra di smalto bianco le decora le unghie. Cinque, quattro... prepararsi all'impatto, tenersi forte, il cuore sbiella. In lontananza riecheggia un clacson impazzito. Una folata più forte delle altre la fa rabbrividire, mentre cerca di stringersi addosso il suo spolverino. Sono già innamorato. Tre, due... Il clacson violenta la notte urlando bestemmie contro il silenzio. Lei affretta il passo come se scappasse da un pericoloso animale io le vado incontro con un sorriso. Uno... IMPATTO!

Riesco a dirle solo "Cia..." prima che l'auto carica di unni arrivi strombazzante. Le gomme stridono sull'asfalto e in men che non si dica tre malintenzionati aprono le portiere e saltano fuori lasciando la macchina in mezzo alla strada con le quattro frecce lampeggianti. Lei è terrorizzata e mi guarda con una supplica silenziosa dipinta sul viso mentre i barbari schiamazzano e ci circondano. Iniziano una specie di danza tribale e si avvicinano sempre di più. Cerco di rassicurarla con lo sguardo mentre le offro il mio corpo come scudo. Potranno avere me, ma prima di poterla anche solo sfiorare dovranno passare sul mio cadavere.

Poi, come ad un segnale prestabilito, tutto tace e la danza si ferma. "Di' Paul, dove andiamo?" Fa il capo della banda, quello con lo sguardo meno animalesco. Io balbetto qualcosa, che non lo so, andiamo in città e poi vediamo cosa c'è di aperto.

"La bellona è dei nostri? Ti sei fatto la morosa?"
"Eh, no, io beh, no..."
"Di' mora, sei dei nostri, andiamo a farci una birra?"

Lei fa no con la testa.

I due scagnozzi, allora, mi afferrano e mi infilano a forza nella macchina mentre il capo sale, rimette in moto e parte. Con le mani e la faccia schiacciata contro il finestrino la guardo per l'ultima volta mentre diventa un puntino bianco e irraggiugibile.

Addio, bella sconosciuta, giuro sulla testa di questi tre imbecilli che un giorno ti ritroverò!

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