venerdì 9 aprile 2010

Incursione

La chiamano perquisizioncina. Almeno, il mio collega la chiama così. Succede così: quando meno te lo aspetti ti piomba in casa qualcuno di grande, grosso e peloso (normalmente tua madre) e dà un'occhiata in giro per vedere come sei messo. La premurosa genitrice fruga un po' dovunque (preferendo frigo e armadio) e si assicura che sia tutto in regola, che, per dire, non ci siano le mutande in mezzo alla camera, che nel frigo non ci sia roba viva (ah, i miracoli della biologia!), che insomma il figlioccio stia conducendo una vita almeno dignitosa.

È andata così. Ore 17.13 suona il cellulare.

"Ciao, sono io"
"Io chi?"
"Come io chi?!? Sono la mamma! Senti, hai dimenticato le chiavi di casa qui da noi. Te le ho riportate."
"..."
"Tu quando torni dal lavoro?"
"Tipo fra mezzora."
"Ok, ti aspetto."

Non mi rendo subito conto di quello che sta succedendo. Finisco le quattro cose che sto facendo, chiudo tutto e vado. Più mi avvicino all'auto e più qualcosa non mi torna. Perché mi sta aspettando? E soprattutto, dove?

Realizzo. Inorridisco. Corro.

Arrivato a casa, parcheggio in fretta e furia e mi lancio verso la porta d'ingresso. Le chiavi, le mie intendo, le ho in tasca ovviamente. Tremante apro piano piano la porta e sbircio dentro. Prima un occhio, poi l'altro. Lei è lì. Mi aspetta straripante di soddisfazione. Entro e mi guardo attorno. Mentre lei mi mostra tutte le migliorie che ha fatto.

Il piano gas è pulito. Il tavolo è già apparecchiato (sono le 6 di sera!). Dai vetri della cucina riesco addirittura a vedere fuori. Il pavimento brilla e manda riflessi che sono stilettate. Alle finestre sono anche comparse delle tende bianche con sopra piccoli pallini rossi. Ormai la mia dignità, la mia indipendenza non esistono più. Sono un pupazzo in una casa di bambole. La soddisfazione fatta donna mi accompagna davanti al frigo e lo apre. I formaggi sono stati messi da parte per fare spazio ad ogni ben di Dio tra cui spicca un chilo di carne rossa (che sarà il mio sostentamento per il prossimo mese, credo). Ma è con la morte nel cuore che mi dirigo in camera: le mutande... per terra... non ci sono più.

Sono umiliato, sono un uomo finito, sono un pupazzo.

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